Sono passati solo pochi giorni e già la ‘notizia’ ha perso di smalto. L’uscita della guida Michelin del resto, in questa edizione, sarà ricordata per quella inopportuna svista sull’inserimento del compianto Mattias Peri e per quel molto inopportuno “je suis scabin” che banalizza una tragedia ben più grave della perdita di una stella.
A proposito di questo, qualche ricerca sostiene che perdere una stella può significare il 50% in meno di introiti. Ma quanto costa averla e mantenerla? Questo è un calcolo che raramente viene fatto dal ristoratore e, guarda caso, la dichiarazione più in voga quando qualcuno la perde è: finalmente ora mi sento libero!
Sta dunque qui il tema vero di discussione e di analisi che, purtroppo, si affronta raramente: quanto ‘pesa’ un giudizio? Quanto quel giudizio tiene conto dei cambiamenti epocali che sono intervenuti nelle modalità di approccio, di scelta, di consumo quando si va al ristorante? Quante nuove formule, non contemplate dalle guide, sono nate negli ultimi quattro/cinque anni rispetto ai consumi fuori casa? Quanti sono i giovani che scelgono un locale in base ai giudizi delle guide?
E tutto questo come ricade sulla gestione economica del ristorante? Sono molti i locali stellati in sofferenza, inutile negarlo. Meglio capire, tutti insieme, come dare merito alle competenze che gli chef e i patron di questi locali hanno acquisito negli anni per dare valore ad un territorio, ad esempio, rendendoli parte integrante e non isole più o meno felici, a seconda dei casi.
Infatti credo che non si debba mai dimenticare – e questo sarebbe un valido aiuto a ridimensionare quello che, ormai da più voci, viene descritto come il circo foodista (cit. Visintin) – il motivo per cui è nata la guida Michelin: per dare un servizio ai viaggiatori di ogni ordine e tipo, di ogni tasca e gusto. Sono circa 7.500 i locali italiani, tra ristoranti e alberghi, citati nell’ultima edizione della guida (erano 2.500 nella prima edizione del 1956). Non si può ridimensionare ogni opinione ai circa 300 stellati. Hanno sicuramente un valore, ma l’economia della ristorazione è fatta anche (a volte soprattutto) dagli altri 2400 citati, con una o più forchette oppure con il simbolo del bib-gourmand.
Luoghi e locali dove si vivono, si anche qui, esperienze gastronomiche, fatte di conoscenza delle materie prime, di sapienza culinaria, di storia e di tradizione. Assaggiare gli spaghetti Taratatà – un piatto della tradizione siciliana – raccontati da Roberta Corradin e cucinati (in una versione più accattivante e moderna) da Antonio Cicero del Consiglio di Sicilia, a Donnalucata, oppure assaporare le mezze maniche in brodo di terza, antica ricetta di casa, all’Osteria di Fornio (nessuno dei due inserito nella Michelin, ma nella guida del Touring di Luigi Cremona) con i suggerimenti per prepararle regalati dalla cuoca fidentina Cristina Cerbi; anche queste sono esperienze, non solo estetiche, che aiutano a conoscere meglio un territorio.
Guardiamo dunque anche a queste realtà che sono, come recita la stessa Michelin, locali in cui spicca “l’eccellenza dei prodotti, la maestria dello chef, l’originalità delle ricette, la qualità delle prestazioni durante tutto il pasto e nell’arco delle stagioni”.
Ce ne sono circa 2.700 citati e ognuno di noi può farsi la sua personale classifica. Personalmente ne voglio citare due che quest’anno hanno perso la stella ma che non per questo vengono meno alla qualità e alla bravura che li contraddistingue da molti molti anni: al Pont de Ferr a Milano e da Paolo Teverini, a Bagno di Romagna.
Luigi Franchi